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Ma
quando un soggetto è rimproverabile? Qui la Corte torna sul principale oggetto
della sua sentenza, cioè l’art. 5 c.p.
Allora, se una persona viola la legge penale perché la ignora, sarà
responsabile?
La risposta è: sì, se è rimproverabile; e allora, quando non si è
rimproverabili?
Secondo la Corte:
“Dal
collegamento tra il primo e terzo comma dell'art. 27 Cost. risulta, altresì,
insieme con la necessaria rimproverabilità della personale violazione normativa,
l'illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino essere
espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i (od indifferenza ai)
valori della convivenza, espressi dalle norme penali. La piena, particolare
compenetrazione tra fatto e persona implica che siano sottoposti a pena soltanto
quegli episodi che, appunto personalmente, esprimano il predetto, riprovevole
contrasto od indifferenza. Il ristabilimento dei valori sociali dispregiati e
l'opera rieducatrice ed ammonitrice sul reo hanno senso soltanto sulla base
della dimostrata soggettiva antigiuridicità del fatto”.
E
aggiunge, di conseguenza, in relazione all’art. 5 c.p.
“e
dovendo la violazione del precetto dovere essere rimproverabile, l'impossibilita
di conoscenza del precetto (e, pertanto, dell'illiceità del fatto) non
ascrivibile alla volontà dell'interessato deve necessariamente escludere la
punibilità”.
Fino
a questo punto possiamo individuare alcuni punti fermi sulla sentenza della
Corte Costituzionale:
1) La responsabilità penale è personale non solo nel senso che non si può essere
puniti per fatto altrui, ma anche nel senso che l’elemento soggettivo, almeno
della colpa, sia presente in relazione agli elementi più significativi della
fattispecie;
2) La responsabilità penale esiste quando in concreto il soggetto è
rimproverabile per il fatto compiuto, rimproverabilità che manca quando non vi
sia l’elemento soggettivo, ma anche quando non poteva conoscere il precetto
penale, seppure esistente.
La Corte poi si chiede se il primo a violare un dovere nei confronti del cittadino non sia proprio lo Stato, con la tecnica di redazione delle norme penali e con il numero di norme penali in circolazione.
Sostiene la Corte:
“Va
qui, subito, precisato che le garanzie di cui agli artt. 73, terzo comma e 25,
secondo comma, Cost., per loro natura formali, vanno svelate nelle loro
implicazioni: queste comportano il contemporaneo adempimento da parte dello
Stato di altri doveri costituzionali: ed in prima, di quelli attinenti alla
formulazione, struttura e contenuti delle norme penali. Queste ultime possono
essere conosciute solo allorché si rendano riconoscibili.
Il principio di riconoscibilità dei contenuti delle norme penali, implicato
dagli artt. 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., rinvia, ad es., alla
necessità che il diritto penale costituisca davvero la extrema ratio di tutela
della società, sia costituito da norme non numerose, eccessive rispetto ai fini
di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di valori almeno di
rilievo costituzionale e tali da esser percepite anche in funzione di norme
extrapenali, di civiltà, effettivamente vigenti nell'ambiente sociale nel quale
le norme penali sono destinate ad operare”.
Così,
quindi, dovrebbero essere le norme penali, ma quando non lo sono il soggetto che
ignora le legge penale, è davvero rimproverabile per la sua ignoranza? Sostiene
la Corte:
“Oltre
alle condizioni relative al rapporto soggetto-fatto, esiste, pertanto, un altro
presupposto della responsabilità penale, costituito, appunto, dalla
riconoscibilità dell'effettivo contenuto precettivo della norma. L'oggettiva
impossibilita di conoscenza del precetto, nella quale venga a trovarsi chiunque
(non soltanto il singolo soggetto, particolarmente considerato) non può gravare
sul cittadino e costituisce, dunque, un altro limite della personale
responsabilità penale”.
Per la
Corte, quindi, la riconoscibilità della norma penale è uno dei requisiti della
responsabilità penale, e se non c’è, il primo soggetto inadempiente non è il
cittadino, ma lo Stato.
Ma poi la Corte affronta un altro problema, la legge penale obbliga quando è
resa conoscibile, e in generale questo accade, ma accade anche che:
“Posto, dunque, che lo Stato adempia ai suoi doveri, che esista, cioè, per l'agente l'oggettiva possibilità di conoscere le leggi penali, residuano, tuttavia, ulteriori problemi. L'assoluta, illuministica certezza della legge sempre più si dimostra assai vicina al mito: la più certa delle leggi ha bisogno di letture ed interpretazioni sistematiche che (dato il rapidissimo succedersi di entrate in vigore di nuove leggi e di abrogazioni, espresse o tacite, di antiche disposizioni) rinviano, attraverso la mediazione dei c.d. destinatari della legge, ad ulteriori seconde mediazioni. La completa, in tutte le sue forme, sicura interpretazione delle leggi penali ha, oggi, spesso bisogno di seconde, ulteriori mediazioni: quelle ad es. di tecnici, quanto più possibile qualificati, di organi dello Stato (soprattutto di quelli istituzionalmente destinati ad applicare le sanzioni per le violazioni delle norme, ecc.)”.
La Corte sostiene, cioè, che non è certo semplice conoscere per davvero il precetto penale, sia per il rapidissimo succedersi di leggi penali, sia perché la legge penale (e non solo aggiungo) deve essere interpretata, e per far questo è necessaria la mediazione di soggetti esperti, specie quelli chiamati dallo stesso Stato a svolgere questo compito.
Di
conseguenza, chi vuole rispettare le legge penale deve anche svolgere dei doveri
strumentali di informazione ulteriore, come chiedere informazioni agli organi
preposti, verificare le interpretazioni della magistratura e così via e se non
segue queste regole strumentali: “la
violazione delle quali già denota quanto meno una trascuratezza nei confronti
dei diritti altrui, delle persone umane e, conclusivamente, dell'ordinamento
tutto”.
E se, invece, si chiede la Corte, queste regole strumentali sono state
osservate?
“D'altra
parte, chi, invece, attenendosi scrupolosamente alle richieste preventive
dell'ordinamento, agli obblighi di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.,
adempia a tutti i predetti doveri, strumentali, nella specie prevedibili e ciò
nonostante venga a trovarsi in stato d'ignoranza della legge penale, non può
esser trattato allo stesso modo di chi deliberatamente o per trascuratezza violi
gli stessi doveri”. E quindi prosegue la
Corte: “se
il cittadino, nei limiti possibili, si e dimostrato ligio al dovere (ex art. 54,
primo comma Cost.) e, ciò malgrado, continua ad ignorare la legge, deve
concludersi che la sua ignoranza è inevitabile e, pertanto, scusabile”.
La Corte, quindi, conclude il ragionamento
sostenendo che:
“L'effettiva possibilità di conoscere la legge penale è, dunque, ulteriore
requisito subiettivo minimo d'imputazione, che si ricava dall'intero sistema
costituzionale ed in particolare dagli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 73,
terzo comma e 25, secondo comma, Cost.
Tale requisito viene ad integrare e completare quelli attinenti alle relazioni
psichiche tra soggetto e fatto e consente la valutazione e, pertanto,
la rimproverabilità del fatto complessivamente considerato”.
Non è
quindi rimproverabile chi non ha agito con dolo o colpa, ma nemmeno è
rimproverabile chi si trovava nell’impossibilità di conoscere il precetto penale
nel senso sopra indicato, quando, cioè, la sua ignoranza sia inevitabile.
Per la Corte, poi, l’art. 5 c.p. nella sua formulazione letterale, viola anche
l’art. 3 Cost e in relazione al secondo comma secondo cui:
“E` compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la
libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Osserva in proposito la Corte:”
Per quanto attiene alla violazione del secondo comma dell'articolo ora citato va
ribadito che il non poter addurre a scusa dell'ignoranza della legge penale
l'obiettiva o la subiettiva (nei limiti anzidetti) impossibilita di conoscere la
stessa legge equivale a far ricadere sul singolo tutte le colpe della predetta
ignoranza. Ben è, invece, almeno possibile, come s'è già sottolineato, che lo
Stato non abbia reso obiettivamente riconoscibili (o prevedibili) alcune leggi;
oppure che, malgrado ogni positiva predisposizione di determinanti soggetti
all'adempimento dei predetti doveri strumentali d'informazione ecc., l'ignoranza
della legge penale sia dovuta alla mancata rimozione degli ostacoli di cui al
secondo comma dell'art. 3 Cost.”.
Ma
come si fa, in concreto, a stabilire se l’ignoranza sul precetto penale sia
inevitabile? La Corte precisa che questa valutazione non può essere solo
oggettiva, ma anche soggettiva, e afferma:
“occorre tener conto della generalizzazione dell'errore nel senso che qualunque
consociato, in via di massima (salvo quanto aggiungiamo subito) sarebbe caduto
nell'errore sul divieto ove si fosse trovato nelle stesse particolari condizioni
dell'agente; ma, ancora una volta, la spersonalizzazione del giudizio va
compensata dall'indagine attinente alla particolare posizione del singolo agente
che, in generale, ma soprattutto quando eventualmente possegga specifiche
cognizioni (ad es. conosca o sia in grado di conoscere l'origine lassistica o
compiacente di assicurazioni di organi anche ufficiali ecc.) è tenuto a
controllare le informazioni ricevute.
Il fondamento costituzionale della scusa dell'inevitabile ignoranza della legge
penale vale soprattutto per chi versa in condizioni soggettive d'inferiorità e
non può certo esser strumentalizzata per coprire omissioni di controllo,
indifferenze, ecc., di soggetti dai quali, per la loro elevata condizione
sociale e tecnica, sono esigibili particolari comportamenti realizzativi degli
obblighi strumentali di diligenza nel conoscere le leggi penali”.
Come
dire, se è pur vero che si fa un riferimento a una sorta di consociato medio, si
fa anche riferimento allo specifico soggetto che invoca l’ignoranza della legge
penale, persone più istruite (o “ inserite”) hanno minori margini di scusa
rispetto a quelle meno istruite ( o meno “inserite”).
C’è poi da chiedersi per la Corte, se non
sia necessario individuare un ulteriore requisito, si osserva che vi sono
comportamenti che
“non
sono sempre e dovunque previsti come illeciti penali ovvero di reati che non
presentino neppure un generico disvalore sociale (es. violazione di alcune norme
fiscali ecc.). E, in relazione a queste categorie di reati, sono state
opportunamente prospettate due ipotesi: quella in cui il soggetto effettivamente
si rappresenti la possibilità che il suo fatto sia antigiuridico e quella in cui
l'agente neppure si rappresenti tale possibilità”.
E allora quando il soggetto non si è nemmeno rappresentato la possibilità che il
suo comportamento sia illecito, bisognerà anche verificare, in merito alla
scusabilità dell’errore che:
“comporta,
da parte del giudice, un'attenta valutazione delle ragioni per le quali
l'agente, che ignora la legge penale, non s'é neppure prospettato un dubbio
sull'illiceità del fatto.
Or se
l'assenza di tale dubbio discende, principalmente, dalla personale non colpevole
carenza di socializzazione dell'agente, l'ignoranza della legge penale va, di
regola, ritenuta inevitabile”.
Come
dire che la particolare condizione personale dell’agente, in relazione a questi
particolari reati, può far qualificare la sua ignoranza come inevitabile. Forse
qui la Corte è andata un po’ troppo oltre chiedendo al giudice di fare anche
questa valutazione, considerando anche quante persone potrebbero invocare un
principio del genere, ma questa è la sua opinione e così
la si riporta.
Tutto ciò premesso la Corte riscrive in sostanza l’art. 5 c.p.:
Il nuovo testo dell'art. 5 c.p.,
derivante dalla parziale incostituzionalità dello stesso articolo che qui si va
a dichiarare, risulta cosi formulato: L'ignoranza della legge penale non scusa
tranne che si tratti d'ignoranza inevitabile.
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