Claudio Mellone, Manuale di Diritto Privato
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risarcimento del danno

Come abbiamo già osservato l'inadempimento può far nascere in capo al debitore una responsabilità per il danno eventualmente subito dal creditore. Abbiamo anche visto che non ogni inadempimento fa nascere responsabilità, ma solo quello attribuibile al debitore, quello cioè che nasce dalla sua mancanza di diligenza nell'eseguire una prestazione. In questa sede ci occupiamo della figura risarcimento del danno dovuto da inadempimento delle obbligazioni, ma norme particolari valgono in sede di inadempimento extracontrattuale, di cui ci siamo già occupati, o per specifiche ipotesi previste da singole disposizioni di legge. 
Stabilito che l'inadempimento dell'obbligazione provoca, alle condizioni già dette, il risarcimento del danno, vediamo quando il creditore può chiederlo e in che misura. Il codice civile dedica al risarcimento del danno per inadempimento (o ritardo) delle obbligazioni gli articoli 1223 e seguenti.
La ricostruzione dell'istituto è nel codice semplice e lineare, ma non priva di problemi interpretativi, come vedremo in seguito.
Vediamola nei suoi punti essenziali.
1. l'art. 1223 dispone che il risarcimento del danno è dovuto per la perdita subita e il mancato guadagno subiti dal creditore quando siano conseguenze "immediate e dirette" dell'inadempimento o del ritardo;
2. si vuole, quindi, che vi sia un rapporto di causa effetto tra inadempimento e danno (o danni) concretatisi nella perdita subita e nel mancato guadagno.
L'art. 1223, come si vede, non dispone che il debitore debba rispondere di tutti i possibili danni causati dall'inadempimento, ma solo di quelli che ne siano la conseguenza "immediata e diretta". Il rapporto di causa ed effetto, il nesso di causalità, non può mancare per far sorgere la responsabilità.
È vero, però, che bisogna considerare anche come il debitore ha posto in essere l'inadempimento, perché può darsi che l'abbia fatto per colpa, ma può anche darsi abbia voluto non adempiere, agendo dolosamente.
Questo atteggiamento del debitore non è senza conseguenze, vediamo perché:
a) nell'ambito delle conseguenze immediate e dirette dell'inadempimento ve ne saranno alcune "prevedibili" e altre "imprevedibili";
b) il debitore che ha agito con colpa risponde solo delle conseguenze, e quindi dei danni, "prevedibili";
c) il debitore che ha agito dolosamente risponde non solo delle conseguenze, e quindi, dei danni prevedibili ma anche dei danni imprevedibili (art. 1225 c.c.).
Questa disciplina lineare rischia, però, di essere messa parzialmente in crisi quando andiamo a chiederci che cosa intendiamo per conseguenze immediate e dirette dell'inadempimento o, che è la stessa cosa, quando c'è il nesso di causalità tra inadempimento e danno.
In merito quest'ultimo punto si distinguono due teorie fondamentali sul nesso di causalità:

·         La teoria della condicio sine qua non: detta anche dell'equivalenza causale considera tutte le cause idonee a produrre un certo effetto. Di conseguenza il debitore potrebbe essere sempre responsabile dei danni subiti dal creditore poiché può aver messo in moto la prima delle condizioni, o delle cause, che hanno provocato il danno;

·         La teoria della causalità adeguata: meno rigorosa dal punto di vista scientifico, ma più idonea dal punto di vista giuridico, questa teoria prende in considerazione come causa di un certo fatto solo quella che appare normalmente idonea a produrlo.

Tra le due teorie la più seguita dalla giurisprudenza, e da parte della dottrina, è quella della causalità adeguata. 
Il debitore, secondo quest'ultima tesi, non è responsabile dei danni subiti dal creditore quando intervenga un fatto del tutto distinto e autonomo dal suo inadempimento, che sia idoneo a produrre l'evento. In questi casi si avrebbe quindi, un'interruzione del nesso di causalità e il debitore non sarebbe responsabile per i danni subiti dal creditore. Tale nuova causa potrebbe consistere nel fatto di un terzo, ma anche nell'attività dello stesso creditore.
Accogliendo la teoria della causalità adeguata si afferma, in definitiva, che non sono attribuibili al debitore i danni causati da fattori eccezionali, che, per essere tali, sono anche imprevedibili.
Ragionando in tal modo, però, si finisce con lo svuotare di significato la regola dell'art. 1225 che attribuisce al debitore che agisce in dolo anche i danni imprevedibili, e ciò perché in presenza di queste situazioni vi è interruzione del nesso di causalità che provoca sempre la mancanza di responsabilità del debitore, che deve rimanere limitata solo alle conseguenze che normalmente producono un certo danno, in definitiva a quelle prevedibili. 
Del problema se n’è accorta la giurisprudenza, che pure accogliendo la teoria della causalità adeguata, a volte riconosce l'esistenza del nesso di causalità anche quando, secondo la teoria dell'adeguatezza causale, questo andrebbe escluso, comprendendo fra i danni provocati dal debitore anche fattori che possono considerarsi eccezionali.
Tornando alla quantificazione del risarcimento del danno, l'art. 1223 dispone che deve comprendere sia la perdita subita e mancato guadagno. Ma che s'intende per perdita subita e mancato guadagno? I due concetti vengono anche indicati come danno emergente e lucro cessante.

Danno emergente e lucro cessante individuano, quindi, due concetti diversi anche dal punto di vista temporale in quanto il primo si è già prodotto mentre il secondo, cioè il lucro cessante, deve ancora prodursi o, meglio, indica un guadagno che si sarebbe potuto produrre se non vi fosse stato d'inadempimento del debitore.
Possiamo parlare di lucro cessante quando, ad esempio, il creditore non riesca a ottenere un macchinario dal debitore; in questo caso il debitore dovrà risarcire anche il mancato guadagno che il creditore avrebbe realizzato se la macchina fosse stata fornita e utilizzata per la sua attività.
Nel lucro cessante si è soliti includere la perdita di chance, cioè la perdita di opportunità, la perdita di un occasione favorevole in seguito alla lesione subita.
Si comprende come non sia facile dimostrare un danno del genere, perché la chance, l’opportunità non significa che il danneggiato ha sicuramente perso un guadagno futuro o una futura posizione favorevole, ma che probabilmente ha subito tale perdita.
Si pensi a chi è stato ingiustamente escluso da un concorso pubblico, che poteva vincere.
Tra le tante massime della giurisprudenza, è interessante quella del tribunale di Desio  del 6 giugno 2007:
“Presupposto per il risarcimento del danno da perdita di "chances" è la prova, da fornirsi ad opera del danneggiato, del fatto che, in assenza della condotta che si assume dannosa, vi sarebbe stata (non la certezza, bensì) la ragionevole probabilità di conseguire il risultato utile sperato.
Grava dunque su chi agisce per ottenere il risarcimento l'onere di dimostrare che egli vantava non una mera e generica aspettativa bensì un concreto e ragionevole affidamento circa la consecuzione dell'esito favorevole, il tutto pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità. Il presunto danneggiato deve, quindi, fornire elementi utili a dimostrare che, in assenza della condotta illecita, egli avrebbe avuto una seria possibilità di raggiungere il risultato sperato e cioè, parlando in termini probabilistici, una percentuale non dell'1% o del 10% ma almeno del 30-40% (Danno e Resp., 2008)”.
Può accadere, infine, che il danno sia stato anche cagionato per l'attività colposa del creditore o dalla sua negligenza.
Questa ipotesi, tutt'altro che infrequente nella realtà, è disciplinata dall'articolo 1227 c.c. secondo cui: 
1.se il creditore colposamente ha contribuito a provocare il danno, il risarcimento dovuto dal debitore è diminuito secondo la gravità della colpa del creditore e delle conseguenze che ne sono derivate;
2.se il creditore, usando l'ordinaria diligenza, avrebbe potuto evitare il prodursi del danno, non avrà diritto al suo risarcimento.

Come si vede nel secondo caso il comportamento del creditore è tale da divenire l’unico responsabile del danno che ha subito.
Norme particolari sono previste per i danni provocati dall'inadempimento delle obbligazioni pecuniarie di cui siamo già occupati in precedenza.
Possiamo ricordare brevemente che l'articolo 1224 c.c. dispone che al creditore sono dovuti a titolo di risarcimento del danno, gli interessi, commisurati al tasso legale, che si sono maturati sulla somma dovuta dal giorno della mora, e questo è vero anche quando il creditore non provi di aver subito alcun danno.
Se però il creditore ritiene aver subito un danno superiore alla misura degli interessi legali che gli debbono essere corrisposti, dovrà provarne l'ammontare e, una volta raggiunta la prova, gli spetterà l'ulteriore risarcimento oltre alla misura degli interessi legali a lui dovuti.
Ricordiamo, infine, la regola dell'art. 1226 del codice civile; si prevede la possibilità che il danno, non si riesca a provare nel suo preciso ammontare; in tal caso il giudice lo liquida secondo equità. Questa disposizione, però, deve essere bene interpretata.
Il riferimento è al caso in cui si sia certi circa il verificarsi del danno, ma non si riesce a provare l’entità esatta del danno. Pensiamo al danno ambientale, a un fabbrica che sversi in un fiume dei liquami tossici. Nessuno, in tal caso, può dubitare che il danno vi sia, ma è impossibile o estremamente difficile provare i danni, l’entità dei danni subiti. Ecco allora che torna utile l’art. 1226, facendo in modo che il responsabile non trovi una facile scappatoia nella difficoltà di prova del danno che ha provocato.

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