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Video, la sentenza della Corte Costituzionale, parte prima |
Parte prima sull'art. 27 Cost.
La
sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988 (364\88) sull’art. 27 e 5
della Costituzione.
Questo testo non è un commento alla sentenza della Corte, e nemmeno un sunto
della stessa, ma una spiegazione della sentenza in modo da renderla più
comprensibile in relazione agli argomenti
in essa trattati. Tale sentenza è fondamentale in
relazione a importanti argomenti, come la responsabilità oggettiva, i rapporti
tra colpevolezza e rimproverabilità, l’ignoranza della legge penale.
Riportiamo l’art. 27 Cost.
“La responsabilità penale è
personale.
L'imputato non è considerato
colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere
in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione
del condannato.
Non è ammessa la pena di morte”.
Si
arrivò alla conclusione secondo cui:"
La motivazione politica della norma è,
dunque, quella d'impedire che colpe altrui ricadano su chi è estraneo alle
medesime -
non facendo espresso riferimento anche all’elemento soggettivo
come elemento di responsabilità personale, ma dai lavori preparatori alla
stesura dell’art. 27 primo comma della Costituzione si può osservare, ritiene la
Corte, che-
i
Costituenti mirarono, sul piano dei requisiti d'imputazione del reato, ad
escludere che si considerassero costituzionalmente legittime ipotesi carenti di
elementi subiettivi di collegamento con l'evento e, sul piano politico, a non
far ricadere su estranei colpe altrui. E mai, in ogni caso, venne usato il
termine fatto come comprensivo del solo elemento materiale, dell'azione
cosciente e volontaria seguita dal solo nesso oggettivo di causalità: anzi,
sempre venne usato lo stesso termine come comprensivo anche d'un minimo di
requisiti subiettivi, oltre a quelli relativi alla coscienza e volontà
dell'azione".
Per i costituenti, quindi, la responsabilità penale è
personale nel senso che non si può essere puniti per fatto altrui e anche nel
senso che rispetto al fatto materialmente commesso è necessario l’elemento
soggettivo, cioè l’esistenza del dolo o della colpa. La Corte, però, non si è fermata qui.
Ha ritenuto, infatti, che l’art. 27 deve essere letto nella sua interezza e che
i diversi commi sono in relazione tra loro e non indipendenti, se non
addirittura in contrasto.
Il primo comma, in
particolare, deve essere letto in relazione con il terzo comma che così dispone:
Le pene non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere
alla rieducazione del condannato.
Secondo la Corte, infatti, collegando il primo e il terzo comma dell’art. 27 si
scopre che dovrà essere rieducato solo chi ha agito in presenza e sostenuto dal
necessario elemento psicologico del dolo o della colpa, non chi ha agito senza:
“Ma è
l'interpretazione sistematica del primo comma dell'art. 27 Cost. che ne svela
l'ampia portata. Collegando il primo al terzo comma dell'art. 27 Cost.
agevolmente si scorge che, comunque s'intenda la funzione rieducativa di
quest'ultima, essa postula almeno la colpa dell'agente in relazione agli
elementi più significativi della fattispecie tipica. Non avrebbe senso la
rieducazione di chi, non essendo almeno in colpa (rispetto al fatto) non ha,
certo, bisogno di essere rieducato”.
Soltanto quando alla pena
venisse assegnata esclusivamente una funzione deterrente (ma ciò é sicuramente
da escludersi, nel nostro sistema costituzionale, data la grave
strumentalizzazione che subirebbe la persona umana) potrebbe configurarsi come
legittima una responsabilità penale per fatti non riconducibili (oltre a quanto
si dirà in tema d'ignoranza inevitabile della legge penale) alla predetta colpa
dell'agente, nella prevedibilità ed evitabilità dell'evento”.
La Corte poi prosegue sostenendo che questi principi erano
già rinvenibili in sue precedenti decisioni (sentenza n. 54 del 1964, sentenza
17 febbraio 1971, n. 20, sentenza del 17 febbraio 1971, n. 2l.) e aggiunge:
“Ed anche a proposito delle
dichiarazioni di principio contenute nelle citate sentenze va sottolineato che,
se si deve qui confermare che il primo comma dell'art. 27 Cost. contiene un
tassativo divieto della responsabilità per fatto altrui, va comunque precisato
che ciò deriva dall'altro, ben più civile principio, di non far ricadere su di
un soggetto, appunto estraneo al fatto altrui, conseguenze penali di colpe a lui
non ascrivibili.
Come è da confermare che si risponde penalmente soltanto per il fatto
proprio, purché si precisi che per fatto proprio non s'intende il fatto
collegato al soggetto, all'azione dell'autore, dal mero nesso di causalità
materiale (da notare che, anzi, nella fattispecie plurisoggettiva il fatto
comune diviene anche proprio del singolo compartecipe in base al solo favorire
l'impresa comune) ma anche, e soprattutto, dal momento subiettivo, costituito,
in presenza della prevedibilità ed evitabilità del risultato vietato, almeno
dalla colpa in senso stretto”.
Da quanto visto fino ad ora, dovrebbe trarsi una conseguenza
obbligata: se in relazione a un fatto è sempre necessario un elemento
soggettivo, almeno la colpa, l’interpretazione data dalla Corte dell’art. 27
Cost. renderebbe incostituzionali tutte le ipotesi, che pure ci sono nel codice
penale, di responsabilità oggettiva. La Corte si pone quindi il problema
dei rapporti tra la sua interpretazione e la responsabilità oggettiva.
“Diversamente
va posto il problema, a seguito di quanto ora sostenuto, per la c.d.
responsabilità oggettiva pura o propria.
Si noti che, quasi sempre e in
relazione al complessivo, ultimo risultato vietato che va posto il problema
della violazione delle regole preventive che, appunto in quanto collegate al
medesimo, consentono di riscontrare nell'agente la colpa per il fatto
realizzato.
Ma, ove non si ritenga di restringere la c.d. responsabilità oggettiva pura alle
sole ipotesi nelle quali il risultato ultimo vietato dal legislatore non é
sorretto da alcun coefficiente subiettivo, va, di volta in volta, a proposito
delle diverse ipotesi criminose, stabilito quali sono gli elementi più
significativi della fattispecie che non possono non essere coperti almeno dalla
colpa dell'agente perché sia rispettato da parte del disposto di cui all'art.
27, primo comma, Cost. relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto”.
Che
cosa ha voluto dire la Corte?
Ha voluto dire che quando
ci si trova di fronte a ipotesi di responsabilità oggettiva, (e non solo) è
necessario verificare se almeno l’elemento della colpa era esistente in
relazione agli elementi più significativi della fattispecie, salvo individuarli
preventivamente e di conseguenza, prosegue la Corte:
occorre verificare,
di volta in volta, se le singole ipotesi criminose di parte speciale (collegate
con le disposizioni di parte generale) siano o meno conformi, quanto ad
elementi subiettivi, ai requisiti minimi richiesti dalle autonomamente
interpretate norme costituzionali.
Veniamo
ora a un altro punto di carattere concettuale: la Corte Costituzionale ha nei
fatti accolto una delle concezioni normative della colpevolezza?
La
Corte stessa lo nega, non ha costituzionalizzato una concezione normativa della
colpevolezza, anche se, ammette, può anche darsi che la sua interpretazione
dell’art. 27
possa corrispondere con una delle concezioni normative
della colpevolezza.
La Corte, però, ammette che nel giudizio contro un soggetto è
necessario accertare la “rimproverabilità” rispetto al fatto commesso, e ciò ha
fatto ritenere a parte della dottrina che se è vero che l’elemento soggettivo
del reato consiste nel dolo e nella colpa, la colpevolezza, in quanto tale, non
consiste nel dolo e nella colpa, ma nella rimproverabilità della condotta al
soggetto agente, e che, di conseguenza, nell’analisi del reato il primo
elemento, relativo alla tipicità del fatto, comprende sia l’elemento oggettivo
sia l’elemento soggettivo, il secondo corrisponde all’antigiuridicità, il terzo
è la colpevolezza, intesa come rimproverabilità, il cui presupposto sta
nell’imputabilità dell’agente.
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